venerdì 12 febbraio 2010

Yi Yi - e uno...e due... (Edward Yang, 2000)

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Tre ore di grandissimo cinema


Non ingannino le quasi 3 ore di durata del film: Yi Yi è un grande film, di quelli che vorresti quasi non finissero mai, per cui anche una durata che lecitamente può apparire esagerata, di fatto non lo è assolutamente.
Sono tre ore che scorrono via in un lampo, nonostante il ritmo del film sia decisamente blando, ma in questa lentezza non c'è nulla di artificioso , di prolisso o di vacuo: è semplicemente una continua e profondissima riflessione sulla quotidianità della vita, quella che scorre tutti i giorni sotto le nostre mani e i nostri piedi.
Le vicende narrate sono imperniate su una famiglia medio borghese di Taipei, una famiglia in cui si possono rispecchiare una molitudine di persone : il padre, dirigente di una azienda in crisi, ancora impregnato di una certa etica del lavoro e di onestà ,in contrapposizione ad un ambiente lavorativo becero e cinico, una madre in profonda crisi esistenziale, avvolta da una aridità interiore che la spinge alla religione, una figlia adolescente alle prese con le prime illusioni d'amore e con un doloroso senso di incomunicabilità, una nonna in stato comatoso che diviene una sorta di confessionale privato per tutti i membri della famiglia ed un ragazzino di 8 anni, autentico perno della storia che racchiude nel suo candore la risposta a tanti malanni; intorno a loro ruotano personaggi vicini alla famiglia, una ex fiamma della giovinezza del padre che si ripresenta con una casualità devastante e , soprattutto, un imprenditore giapponese, candidato ad entrare in affari con il capo famiglia, che ci dona dei momenti splendidi nei dialoghi con quest'ultimo e in una improbabile , quanto stupenda  interpretazione della Sonata "Al chiaro di luna" di Beethoven eseguita niente meno che in un night club.
Lo scorrere di tutte queste esistenze, simbolicamente racchiuse tra un matrimonio che apre il film ed un funerale che lo chiude, sono osservate nella loro quotidianetà con discrezione, in alcuni momenti addirittura con pudore, nascondendo quasi i protagonisti in ambienti che avvolgono e nascondono; il loro essere quasi immobili, pochi gesti e sussurri, cela solo esteriormente i tumulti che li animano, l'amore che ritorna e che muore, l'impossibilità di capire il mondo che li circonda, la difficoltà a comunicare, il rimpianto per quello che dovrebbe essere e che non è.
Yang è sublime nel lasciare placidamente dare il tempo agli eventi, quasi avesse timore a renderli più roboanti , e se questo, da un lato, va inevitabilmente a discapito del ritmo, dall'altro regala una veridicità ed un intimismo che scaturiscono una emozione forte.
La figura del piccolo Yang Yang , taciturno, curioso , preso dal fotografare le persone alle spalle per mostrare poi loro quello che non possono vedere, sembra essere la chiave di lettura di questo film: sapere guardare oltre e soprattutto dietro, le cose nascoste, per capire il senso della vita.
La regia di Yang, giustamente premiata a Cannes, è splendidamente asettica: una camera che guarda , in silenzio, senza intromettersi, nelle pieghe dalla vita, ma che al contempo è capace di offrire immagini secche, non mediate che vanno dritte negli occhi e nel cuore, immagini fatte di vita di tutti i giorni, così epicamente semplice e grandiosa.

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